Quando si parla di dipendenza affettiva, si pensa subito alla donna, l’esclusiva protagonista della sofferenza nelle relazioni. In realtà il mio studio pullula di uomini sensibili, introversi che definiremmo in questa sede (per esigenza di generalizzazione), dipendenti affettivi. L’uomo semplicemente si vergogna di soffrire per amore, per cui è meno portato a parlarne e a farsi aiutare. Si accontenta spesso di sublimare le aspettative disattese nello sport, nel lavoro o in un’amante. Rispetto alla donna tuttavia, raramente mette in discussione il partner o la relazione stabile, soprattutto se questa dipendenza affettiva è rinforzata dalla società. L’uomo, al contrario di ciò che si pensa, ha più paura di restare solo e al contrario di quello che crediamo soffre di dipendenza affettiva soprattutto perché tende a permanere in coppie. Secondo la mia esperienza clinica, ci sono due tipi di uomini che soffrono di dipendenza affettiva, che solitamente colloco nell’area narcisistica/isterica e borderline del funzionamento affettivo, sessuale e psicologico: il narcisista evitante (covert) e il borderline-isterico (carattere infantile). Lo stile di attaccamento è quasi sempre INSICURO-EVITANTE o INSICURO-AMBIVALENTE (nei casi più gravi DISORGANIZZATO, ma non ci si occupa in questo articolo delle derivazioni psicotiche del funzionamento affettivo e psicologico maschile).

In entrambe i casi abbiamo tre componenti da osservare:
- La relazione patologica o disfunzionale con una madre “non sufficientemente buona” (per eccesso/ iper-protettiva e castrante o per difetto/fredda, abbandonica e svalutante)
- L’assenza di un padre sufficientemente “forte” che possa salvarlo dall’ossessività o dalla svalutazione materna; uomo altrettanto dipendente e/o infantile, che si pone nella relazione con la moglie come “primo figlio d’oro” oppure narcisista, assente e anaffettivo, che lo annichilisce, lo svaluta perché non vuole che diventi realmente “uomo” rischiando di depodestarlo.
- Una bassa autostima e un complesso edipico irrisolto. Il dipendente affettivo idealizza le figure femminili, vuole essere accudito e stimato dalla sua “mamma sostitutiva” e fantastica di non essere abbandonato mai da lei, nonostante il suo palese infantilismo e il comportamento scarsamente “virile” con la donna. Scinde l’oggetto femminile in due parti “sacro/profano”, idealizzando il lato angelico/asessuato e desiderando in modo conflittuale e colpevole la parte profana/sessualizzata. Il dipendente affettivo si pone da un lato come “un umile servitore”, dall’altra come un “bambino bisognoso/arrabbiato” che deve dimostrare a sua madre di essere autonomo e di non temere il suo abbandono. Per questo il dipendente affettivo oscilla in un dramma isterico tra sparizioni, ossessività, paura dell’abbandono e della “castrazione simbolica” per avere “osato desiderare la donna che ama, che rappresenta tuttavia la madre idealizzata/temuta e di proprietà di qualcun altro, ossia il padre assente e temuto. Per questo spesso i dipendenti affettivi amano tanto i triangoli, i tradimenti e le situazioni affettivamente immature o precarie.
Un’altra caratteristica peculiare è la paura di farcela da soli; la madre iper-protettiva ansiosa, paranoica e/o isterica, impedisce al figlio di fare esperienze nel mondo esterno reprimendolo in una simbiosi che non è rotta dall’intervento di un padre salvifico, mentre quella disimpegnata fredda e assente, lascia il figlio “a bocca asciutta” candidandolo all’eterna ricerca di un materno riparativo. In generale, non avendo avuto una madre solida e una base sicura, il dipendente affettivo sente di dover sempre avere l’appoggio della donna e il suo riconoscimento affettivo, ma la fonte da cui cerca di attingere è la medesima verso la quale nutre diffidenza. Ecco che si crea il conflitto tra la dipendenza verso il femmineo e l’aggressività repressa verso di essa. L’iperprotetto è viziato e represso, non è autonomo affettivamente (spesso neanche a livello pratico) e finisce per torturare la partner se questa non le garantisce le adeguate attenzioni, proiettando su di lei la figura della “maligna dominante”, mentre l’incompreso/abbandonato ricerca ossessivamente una relazione con una donna, ma di fatto riversa su di essa tutte le sue frustrazioni e la sua aggressività, quasi sempre passiva/indiretta. I dipendenti affettivi si difendono inconsciamente dalla loro ricerca di dipendenza e sviluppano quella che viene definita comunemente “contro-dipendenza”: non cercano una relazione oppure se ce l’hanno debbono costantemente fuggire o svalutarla per metterla in discussione e rivendicare il loro diritto alla libertà. Alcuni cercano donne altrettanto dipendenti per sentirsi dominanti, sviluppando legami ambivalenti simbiotico-isterici e/o sado-masochistici oppure si mostrano alla donna “machi e distaccati” (l’uomo che non deve chiedere mai) accedendo alla maschera isterico-dominante invece che passivo-aggressiva. In altri casi si alternano le due versioni. Di base la dipendenza affettiva viaggia di pari passo con il conflitto “sicurezza-individuazione” e con la fobia dei legami, che sono percepiti come una necessità, ma anche come un vincolo che potrebbe riportarli a quella condizione di impotenza castrante vissuta in infanzia. Fidarsi di qualcuno significa accettare che quella persona potrebbe avere potere su di noi, ma come diceva Pavese: “l’amore vero si sperimenta quando possiamo mostrare le nostre fragilità a qualcuno senza che se ne serva per affermare il suo potere su di noi o a sé stesso”.
Alcuni dipendenti affettivi si innamorano sempre di donne ambivalenti – altrettanto isteriche sul versante del maschile (paura del maschile), per esserne delusi e in tal modo giustificare a sé stessi che non hanno una relazione, perché le donne li sfruttano, ma di base sono loro a cercare questo tipo di donne (o meglio a sentirsi innamorati o coinvolti solo con questo tipo di caratteristica) per poi assumere un atteggiamento vittimistico e poter dimostrate che le donne sono cattive, come la madre e anche come la madre afferma “nessuna ti amerà mai quanto me, lo faccio per il tuo bene…”. Le madri dei dipendenti affettivi sono spesso represse, giudicanti, svilenti, anaffettive e per poter accedere ad una qualsivoglia forma di attenzione, questi uomini sono abituati a sottomettersi oppure a fare “i capricci” esigendo continue rassicurazioni o prove d’amore più o meno direttamente; da adulti ricercheranno inconsciamente donne altrettanto giudicanti, dipendenti o castranti per cercare di superare questo complesso e nel frattempo svilupperanno un conflitto tra il sacro e il profano, non riuscendo di fatto a dominare o possedere sessualmente la donna che idealizzano o con la quale entrano in reale intimità, perché ciò vorrebbe dire “profanare il corpo materno”.

La chiave di risoluzione della dipendenza affettiva maschile è la costruzione di un’identità maschile autonoma, il lavoro sui sensi di colpa, la repressione e la paura della castrazione.
Dottoressa Silvia Michelini
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Buongiorno, mi potrebbe approfondire il perché della scissione sacra profana, è una cosa che faccio anche io e che non riesco capire il perché. Sono in analisi junghiana da quasi due anni e il complesso edipico è per me l’ostacolo più grande da affrontare, ma vorrei capire bene il perché io se una donna sperimenta giustamente la sua sessualità, per me è come se perdesse di valore. È una cosa estremamente brutta da sentire dire però ahimè è la mia verità, se però nelle mie immagini associo alla donna una sua volontà di sperimentare il “mio dolore” se la donna è di mio interesse è minore. Come se, se per me è un angelo non sopporto che per qualcun altro sia un oggetto sessualizzato. Dandole volontà è come se non fosse più un oggetto. Come se dovessi “proteggerla” come se avessi un idea di donna ingenua che deve essere protetta.
Chieda pure al suo terapista. Se da due anni lavora su questo forse sarebbe il caso.