Dott.ssa Silvia Michelini     psicologiacoppia@gmail.com
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l criticismo genitoriale e le sue eredità: tra amore condizionato, perfezionismo e vuoto esistenziale

Criticismo genitoriale: amore condizionato, perfezionismo e ferite invisibili Il criticismo genitoriale non è solo una modalità educativa severa: è un linguaggio relazionale che plasma la mente del bambino. Dietro il rimprovero costante, esplicito o implicito, si nasconde un messaggio emotivo potente: “Ti amo solo se ti comporti come voglio io.” In questa cornice, l’affetto diventa condizionato alla performance: il bambino impara che l’amore non è un diritto, ma una ricompensa. Le approvazioni arrivano in modo incoerente — troppo rare, troppo legate al successo — e la mente infantile si abitua a vivere in attesa di un riconoscimento che non basta mai. Imparano soprattutto a regolare la propria autostima all’esterno e ad adottare un “locus of control esterno”. Il Locus of Control Esterno è la tendenza di un individuo a percepire che gli eventi della propria vita — successi, fallimenti, situazioni personali — siano determinati da fattori esterni rispetto al proprio agire piuttosto che dalle proprie azioni, abilità o decisioni.           Il bambino “dotato” e la perdita dell’autenticità Come descrive Alice Miller ne Il dramma del bambino dotato (1979), il bambino particolarmente sensibile, empatico e intuitivo è il più vulnerabile a questo modello. Per non perdere l’amore, egli si adatta: diventa il figlio “buono”, “capace”, “responsabile”, costruendo un’identità basata sulla risposta ai bisogni dell’altro. È il bambino adattato, che impara a leggere l’ambiente e a rispecchiarlo, creando un Falso Sé di compiacenza (Winnicott) che gli impedisce alla lunga di percepire sé stesso. Nel tempo, questa modalità relazionale produce un Sé fondato sull’approvazione altrui: la propria autostima si regge su parametri esterni, sulle aspettative normative e sui criteri di giustezza o errore imposti dal contesto familiare. La persona cresce con la sensazione di non essere mai “abbastanza” e con una tendenza cronica all’autocritica.             Il criticismo come controllo affettivo Il rimprovero, in questo senso, è molto più di un richiamo educativo: è uno strumento di controllo emotivo. Chi critica si colloca in posizione di potere, rafforzando la propria autostima nel momento stesso in cui sminuisce l’altro. Come scrive Miller, la colpa diventa il veicolo del controllo: l’altro viene tenuto a bada non con la punizione fisica, ma con la minaccia implicita della disapprovazione. Il bambino — e più tardi l’adulto — impara così che per non perdere il legame deve conformarsi, reprimere, chiedere scusa anche quando non serve. Questo modello era particolarmente visibile nei metodi educativi degli anni ’70, fondati su regole, asimmetria dei ruoli, assenza di dialogo e ferrea disciplina (modello autoritario) Negli anni ’80, la reazione fu opposta: un lassismo educativo in cui i confini si allentarono, ma spesso senza un reale ascolto emotivo. In entrambi i casi, mancava un equilibrio: o l’amore era condizionato, o era troppo indifferenziato per fornire sicurezza. Dalla paura di deludere al perfezionismo maladattivo Chi cresce sotto il bombardamento di un criticismo costante sviluppa un sistema mentale centrato sulla prevenzione della colpa. Il pensiero di fondo è: “Se non sbaglio mai, non mi rimprovereranno.” Da qui nasce il perfezionismo maladattivo, un bisogno compulsivo di corrispondere, controllare, correggere. L’autocritica diventa così una strategia difensiva: ci si punisce prima che lo faccia l’altro, nel tentativo di neutralizzare il dolore. Nel tempo, però, questo meccanismo logora: la mente è sempre in allerta, e il senso di inadeguatezza diventa cronico. Nella clinica, questa dinamica si ritrova spesso in alcuni tipi di personalità soprattutto quella OC e in alcune condizioni cliniche: disturbi d’ansia, nel disturbo ossessivo-compulsivo, nell’ansia generalizzata e in tutte le depressioni ad alto funzionamento, dove il senso di colpa e il bisogno di controllo si alternano a momenti di disperata ricerca di libertà.               La trasmissione intergenerazionale del criticismo Come osservava ancora Miller, il genitore criticante raramente sceglie di esserlo, altre volte invece lo è consapevolmente – perché lo ha subito ma si è identificato con l’aggressore e in questo modo può dissociarsi dal SUO trauma di rifiuto di vulnerabilità e senso perenne di inadeguatezza, sostandolo sul figlio.. Riproduce, in modo inconsapevole, ciò che ha subito: il trauma relazionale diventa linguaggio emotivo. Chi è cresciuto sentendosi inadeguato tende, a sua volta, a rimproverare, correggere, pretendere. È una forma di continuità invisibile — la trasmissione intergenerazionale del criticismo — che mantiene in vita la paura dell’errore come struttura affettiva ereditaria. Questo meccanismo offre al genitore un’illusione di potere e di controllo, ma in realtà alimenta una spirale di distanza e dipendenza reciproca. Il figlio cerca approvazione, il genitore cerca conferma del proprio valore attraverso la “correzione” dell’altro. Entrambi restano prigionieri della stessa ferita. La depressione di base: quando la vita perde spontaneità L’esito di questo processo è ciò che Miller chiamava “depressione di base”: una forma di malinconia esistenziale che nasce non da un lutto, ma da un’assenza di autenticità. Chi è cresciuto sotto il segno del criticismo sente di vivere una vita “giusta” ma non propria. Fa tutto “bene”, ma non sente nulla di veramente vivo.
Il perfezionismo, in questo senso, è la maschera più raffinata della mancanza di amore incondizionato: un tentativo di essere perfetti per non essere abbandonati.
         

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  Riconoscere questo schema significa iniziare a separare la voce del genitore interiorizzato dalla propria voce autentica. Significa imparare a tollerare l’errore, la lentezza, la fragilità come esperienze umane e non come fallimenti. Solo allora l’amore smette di essere un esame da superare, e torna a essere un’esperienza che nutre e libera.